6 settembre 2010
L’accertamento sintetico al “terzo”
L’accertamento sintetico è orientato alla ricostruzione di una capacità contributiva che si assume concretamente esistente (sotto forma di disponibilità di beni e servizi), mediante un ragionamento presuntivo fondato sugli elementi di spesa. Ciò è ancora più vero nella «nuova» versione dello strumento, applicabile a partire dal periodo di imposta 2009.
L’effettuazione dell’accertamento pone però alcuni problemi relativamente all’individuazione del soggetto cui afferisce tale capacità contributiva: come si diceva, infatti, il contribuente vive in una rete di rapporti sociali e familiari della quale il suo status può beneficiare, o che si avvantaggia della sua capacità di spesa.
La normativa in materia di accertamento, così come l’obbligo dichiarativo, si fonda sulla capacità reddituale del singolo: ma «chi» è questo singolo?
La gran parte di noi vive all’interno di un contesto familiare/relazionale, il quale da un lato può «confondere» la reale titolarità del reddito, e dall’altro può costituire per il contribuente una fonte di oneri più che di «arricchimento» (e ciò potrebbe esser fatto valere nell’ambito di un contraddittorio con l’ufficio).
In tale contesto, l’inesistenza – in seno all’ordinamento italiano – di un correttivo alla progressività personale dell’imposta sul reddito in grado di tener conto del soggetto «famiglia» (del tipo «quoziente familiare») si scontra con la possibile rilevanza indiretta dei legami familiari quali indicatori di capacità contributiva.
Si rammenti a tale riguardo che l’accertamento sintetico nasce come uno strumento straordinario, applicabile laddove risulti impossibile ricostruire analiticamente la situazione reddituale del contribuente: la sua applicazione è quindi circondata da prudenze e «distinguo», e anche relativamente alla questione dei familiari occorrerà usare buon senso.
Per gli organismi di controllo, poi, la questione è ben più vasta, dal momento che possono esistere famiglie di fatto e famiglie formali, e che i beni potrebbero essere fittiziamente intestati a soggetti «terzi» interposti, ancorché non familiari.
In tale prospettiva potrebbe essere azionato l’art. 37, terzo comma, del D.P.R. n. 600/1973: questo però consente al Fisco di imputare i redditi, e non anche i beni, al loro reale titolare: non è quindi semplice coordinarlo con l’art. 38, quarto comma.
Scritto il 6-9-2010 alle ore 17:39
Condivido le osservazioni sopra poste ed ho anche letto stamane l’intervento del professor Lupi su di un noto quotidiano riguardo alle novità del redditometro, condividendo, in particolare, l’osservazione per cui lo strumento da solo, se pur innovato, non può essere in grado di risolvere il problema dell’evasione fiscale, prescindendo dalla produzione del reddito, che come sappiamo, avviene oggi in un contesto di determinazione analitico aziendale.
Da un po’ di anni il fisco sta puntando sempre di più su questo strumento di accertamento, pensando forse che dietro di esso si celi la panacea di tutti i mali. Giustamente ricorda il dott. Carrirolo che questa tipologia di accertamento è stata a suo tempo pensata come integrativa, come ultima ratio rispetto all’accertamento analitico.
Certamente ciò poteva essere logico ritenerlo nel periodo in cui il redditometro fu introdotto; oggi stiamo invece vivendo un momento storico nel quale si palesa molto chiaramente la necessità da parte
del fisco di utilizzare in modo adeguato l’enorme base informativa che ha a disposizione, senza cadere però nell’errore di pensare che la
soluzione all’evasione fiscale possa derivare solo da esso.
In questo breve intervento mi preme porre in luce quella che secondo me è una grave stortura dell’accertamento da redditometro: i moltiplicatori degli indici di spesa corrente, rappresentanti ad esempio dal possesso di autovetture, iscrizioni a palestre, scuole
private, collaboratori famigliari, mutui, ecc. portano a determinare un reddito del tutto fittizio. Quanto appena osservato è una evidenza
dei fatto: un conto è effettuare la sommatoria delle spese effettive sostenute dal contribuente in un anno, altra cosa, invece, è giungere
alla determinazione dei redditi inesistenti moltiplicando per 1,5, per due, per tre, ecc. una spesa di cui il contribuente si fa carico
magari spendendo quasi tutto il reddito in suo possesso. Un evidente esempio è rappresentato dalla spesa per badanti o collaboratrici
familiari.
Un altro aspetto critico sarà rappresentato dal fatto che gli uffici fiscali saranno sommersi da segnalazioni di posizioni irregolari derivanti dalla novità introdotta tesa a considerare guadagnata integralmente nell’esercizio una spesa da investimento.
Queste due osservazioni che ho appena effettuato evidenziano la contraddittorietà di scelte che non sembrano tenere adeguatamente conto del contesto socio-economico attuale: viviamo infatti in una
società ove la quota destinata al risparmio da parte delle nuove generazioni è pressocché nulla, con conseguente incremento del ricorso
del credito al consumo. Ed è infine di chiara evidenza come l’investimento in beni durevoli non possa che essere effettuato attraverso la stipula di contratti di finanziamento a medio e lungo
termine.
È auspicabile quindi che di tali anomalie ne venga tenuto in adeguato conto in sede di elaborazione dei decreti ministeriali di applicazione, così come dalla prassi che i singoli uffici andranno ad
adottare
Scritto il 9-9-2010 alle ore 09:38
A me pare che, come già da diverso tempo si assiste, siamo alla presenza della solita “manovrina” fatta a “tavolino” che tanto disagio porta a tutti i privati senza valore aggiunto vero e proprio per la collettività a unico e solo vantaggio della p.a. nel suo insieme che si “elefantizzerà” ancora più di oggi che già è insopportabile per diversi motivi, tra cui primeggia l’inefficienza complessiva e l’inefficacia sostanziale, causata proprio, a mio parere, dalla sua “dimensione” (per di più poco gerarchizzata)più che dalla incompetenza di singoli individui dai più individuata invece come causa principale del disservizio generale. La soluzione non è dietro l’angolo, ma iniziare dalle norme di legge che non “impongono” agli organi amministrativi adempimenti ulteriori a quelli esistenti potrebbe già essere un primo passo verso lo snellimento del “sistema”. In sostanza ritengo che il problema sia oramai non tanto nella legge quanto la sua applicazione, per cui ritengo che non legiferare sia più produttivo che farlo anche se fatto con nobili intenti.
In merito al reddittometro la chiave di volta stà nella “sana” ed “obbiettiva” applicazione che se ne farà, ossia legata in ultima analisi al “buon senso” dei singoli preposti della p.a. che genera per questo solo fatto inveitabili differenze sostanziali, riscontrabili da città a città da regione a regione e così via, con l’inevitabile risultato che a medio/lungo termine si dovrà concordare sulla sostanziale “iniquità” dello strumento, es. perchè a reggio calabria si da per buona la giustificazione dei soldi della pensione di invalidità della nonna e a roma no, lasciando poi il giudizio finale alla Cassazione, ecc..ecc. Film già visti, con annessi colpi di scena, si veda l’ultimo del compenso amministratori; in sostanza gioco a quiz o similare con invitabile banalizzazione del sistema e incremento, ce ne fosse bisogno della sfiducia generalizzata.
Risultato ultimo: conseguente negazione del principio cardine del nostro ordinamento basato invece sulla “effettiva” capacità contributiva, ossia il contrario esatto di quello che si vuole perseguire.
Scritto il 30-10-2010 alle ore 10:55
Interessante articolo del prof. Saccone (pubblicato su http://www.fiscoequo.it).
“Il redditometro non colpisce l’Iva e l’Irap evasa da professionisti e imprenditori”. Ne consiglio la lettura:
http://www.fiscoequo.it/home/index.php?option=com_content&view=article&id=272:il-nuovoredditometro-non-liva-e-lirap-evasa-da-professionisti-e-imprenditori&catid=53:analisi&Itemid=111