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Il Blog di Fabio Carrirolo

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Postilla » Fisco » Il Blog di Fabio Carrirolo » Diritto tributario e finanziario » Le nuove CFC

24 maggio 2010

Le nuove CFC

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Nell’ambito della nuova disciplina delle società controllate estere (CFC), il legislatore ha scelto di attribuire una particolare rilevanza alle tipologie reddituali prodotte in capo alla società controllata («passive income»), a prescindere dalla possibilità di dimostrare l’effettivo insediamento in uno Stato «black list» di una struttura societaria svolgente attività commerciale/industriale come propria principale attività.

Occorre a tale riguardo considerare quanto segue:

1.      per quanto riguarda la dimostrazione della «prima esimente» [art. 167, quinto comma, lett. b), TUIR] il decreto ministeriale attuativo in materia di CFC (art. 5, D.M. n. 429 del 2001) afferma che «ai fini della risposta positiva rileva in particolare, nei riguardi del soggetto controllante autore dell’interpello, il fatto che l’impresa, la società o l’ente non residente svolge effettivamente un’attività commerciale, ai sensi dell’articolo 2195 del codice civile, come sua principale attività nello Stato o nel territorio con regime fiscale privilegiato nel quale ha sede, con una struttura organizzativa idonea allo svolgimento della citata attività oppure alla sua autonoma preparazione e conclusione»;

2.      nel contesto della «participation exemption», la lett. d) dell’art. 87, primo comma, del TUIR, stabilisce che il requisito della commercialità consiste nell’esercizio da parte della società partecipata di un’impresa commerciale secondo la definizione dell’art. 55.

Sotto il profilo della residenza della partecipata, se questa è ubicata in uno Stato o territorio «black list» il regime di esenzione parziale non spetta, a meno che non venga dimostrata la seconda esimente («non delocalizzazione» di redditi imponibili: cfr. l’art. 167, quinto comma, lett. b), del Testo Unico). Il requisito della commercialità deve infatti sussistere, ma ai sensi dell’art. 55, come si diceva, e non dell’art. 2195 del codice civile.

Ciò significa che anche le attività non rientranti nella definizione di «impresa», purché organizzate in forma di impresa, se esercitate dalla CFC possono garantire il trattamento di esenzione sulle plusvalenze, ma non possono escludere la tassazione per trasparenza della società estera in capo alla «madre» italiana.

Ciò nonostante, «l’impresa» utile a verificare la «prima esimente» rimane, per quanto attiene alla disapplicazione del regime di trasparenza, quella civilistica.

Inoltre, le imprese che percepiscono «passive income» sono presunte ex lege «non effettive», secondo un orientamento che si è già manifestato nella risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 226/E del 18.8.2009 (relativa al caso di una società che percepiva delle royalty su marchi).

Atteso che tali società vengono assoggettate al regime CFC anche se non residenti in Stati o territori «black list», esse possono dimostrare, secondo il comma 8-ter dell’art. 167, che «l’insediamento all’estero non rappresenta una costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale».

Tale ulteriore esimente rivela un carattere diverso rispetto alle due esimenti «classiche», dato che, per i soggetti non «black list», che possono essere anche residenti nell’UE, viene applicato un criterio di derivazione europea: come può essere affermato, però, il carattere (meramente) «artificioso» di una società che gestisce partecipazioni o asset immateriali?

Letture: 5565 | Commenti: 6 |
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6 Commenti a “Le nuove CFC”

  1. Marco M scrive:
    Scritto il 25-5-2010 alle ore 14:09

    Non mi è chiaro perché quanto si afferma nel 4° paragrafo: “Ciò significa che anche le attività non rientranti nella definizione di «impresa», purché organizzate in forma di impresa, se esercitate dalla CFC possono garantire il trattamento di esenzione sulle plusvalenze, ma non possono escludere la tassazione per trasparenza della società estera in capo alla «madre» italiana.” Infatti l’esenzione della plusvalenza è direttamente correlata all’ottenimento dell’interpello ex lett. b); per cui la mancata tassazione per trasparenza è comunque condizione necessaria per la pex.

  2. Fabio Carrirolo scrive:
    Scritto il 25-5-2010 alle ore 15:15

    Intendo semplicemente dire che la “pex” presuppone, in capo alla partecipata, un requisito di commercialità meno stringente di quello richiesto per le CFC, ai fini della disapplicazione del regime di trasparenza.
    La commercialità richiesta in ambito “pex” è quella della lettera d) dell’art. 87, primo comma, e deve sussistere comunque, congiuntamente al requisito della residenza non “black list”, previsto dal comma c).

  3. Marco M scrive:
    Scritto il 25-5-2010 alle ore 16:34

    Sta di fatto che il requisito della commercialità sta diventando il punto più critico nella disciplina pex e cfc.
    In generale, il fisco guarda sempre di più alla “sostanza” dell’operazione e, in definitiva, alle scelte imprenditoriali che devono essere chiare, evidenti, documentate, ragionevoli, ecc.
    Probabilmente dopo un decennio di de-localizzazioni all’estero sia delle fasi produttive che di quelle “partecipative” (holding), sull’onda di regimi fiscali paradisiaci o di normative pex varie, le amministrazioni fiscali si stanno riorganizzando e irrigidendo.
    Il comma 8-ter è una frecciata diretta a pratiche al limite dell’abuso perpetrate con Paesi “amici”, che tenta di riparare l’Italia da possibili censure comunitarie grazie alla possibilità di fornire prova contraria… peccato sia previsto l’interpello preventivo!
    Il vero punto è che molto spesso queste normative, anche se apprezzabili nell’intento, sono in contrasto con la legislazione comunitaria e/o non sono affatto coordinate con le normative degli altri “partner” europei.

  4. franco scrive:
    Scritto il 28-5-2010 alle ore 16:08

    In tema di CFC, non mi è chiaro se sia tenuta all’interpello preventivo uan società italiana che controlla una società (produttiva) ubicata in un paese dell’Unione Europea.

  5. Fabio Carrirolo scrive:
    Scritto il 30-5-2010 alle ore 11:43

    Siccome i vincoli in materia di CFC divengono applicabili anche ai soggetti “non black list”, ivi compresi quelli residenti nell’UE, in presenza dei requisiti della tassazione agevolata e della produzione prevalente di “passive income” (dividendi, roalties, etc.), anche l’interpello disapplicativo può interessare le società “non black list” (nell’UE e fuori dall’UE).
    Per ora l’interpello CFC rappresenta un onere più che un obbligo, ma la risposta positiva è necessaria al fine di disapplicare la tassazione per trasparenza.

  6. Marco M scrive:
    Scritto il 30-5-2010 alle ore 14:33

    La vera differenza tra interpello “CFC black list” e “CFC non black list” sta nella verifica dei requisiti che rendono potenzialmente applicabile la disciplina.
    Infatti, l’interpello CFC non black list richiede una previa verifica da parte del (solo) contribuente riguardo alla tipologia di reddito prevalente della partecipata e alla misura della tassazione di quest’ultima. Se queste condizioni sono soddisfatte, l’interpello diventa necessario per provare la non artificiosità dell’insediamento estero. Mi pare di comprendere che in queste situazioni al contribuente viene lasciata una maggiore “libertà”, alla quale fa tuttavia da contraltare un non semplice, e opinabile in sede di verifica, dei requisiti di accesso alla disciplina. In tali casi ci si potrebbe chiedere dunque se, una volta che l’a.f. avesse contestato al contribuente i requisiti del comma 8 con riguardo ad una partecipata, il contribuente possa ancora “salvarsi” nonostante non avesse previamente presentato interpello ai sensi del comma 8-ter…

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